Marco Paolini: Bisogno (la pellagra via sms)
di Alberto Faustini, Il Trentino
Un luogo. Tante storie. A cavallo fra memoria e avvenire. E' qui, in una Manifattura che sta diventando "Manifutura", ponte fra il lavoro, l'industria, il sudore di generazioni di operai, e una prospettiva tutta da disegnare, che Marco Paolini ha messo in scena il suo nuovo spettacolo. Il grande artista osserva questa città nella città. L'abbraccia con gli occhi. La riempie con la voce.
«Non amo l'enfasi - mi dice -, ma non ne posso più di celebrare funerali».
Come come?«Spesso recito in luoghi come questo. Luoghi che spariscono. A Borgo Sacco non sono riuscito a vedere tutto. Ma basta stare un istante qui dentro per intuire immediatamente che siamo in un quartiere e non in un edificio. La varietà degli spazi, dei cortili e la successione dei singoli complessi all'interno di un'area unica contribuiscono a farti sentire dentro qualche cosa che ha un tema, una vocazione».
Si spengono le luci, ma un pezzo dello spettacolo, in un certo senso, continua. Sotto la tettoia della Manifattura Paolini libera il suo sguardo: quello che ipnotizza le tante persone che girano l'Italia per vederlo. Si ferma. Riflette.
«Sarebbe un peccato toglierla, questa tettoia. Perché se lì ci dovessero essere altre attività di spettaccolo all'aperto, quello sarebbe non solo un luogo dove rifugiarsi, ma anche una sorta di ponte fra il pubblico e l'artista».
Sabato pomeriggio, al Mart, il "padrone di casa" Gianluca Salvatori, aprirà con Gutierrez, Kengo Kuma e Carlo Ratti una porta sul domani. Insieme, spiegheranno cosa diventerà la Manifattura.
«Io - continua Paolini con voce bassa, consumata dal palco - non oso certo dare suggerimenti. Ma mi sembra che questo spazio, così come si è fatto a Parigi o al civico di Schio - dove abbiamo fatto la serie di Report - si possa, come dire, recuperare senza restaurare».
Ovvero?
«I restauri spesso trasformano i luoghi. Non so ancora a cosa stanno pensando gli esperti e non do certo suggerimenti agli architetti. Dico solo che questo cortile così potente, così evocativo, mi fa sperare che ogni tipo d'intervento mantenga la patina del tempo. Stare qui mi dà una sensazione profonda. Si sente di stare fra un'architettura della Mitteleuropa e tutto il Novecento. Io ho lavorato nello spazio più moderno, ma in generale sono sempre molto triste quando recito in luoghi postindustriali. Come dicevo, non ne posso più di celebrare funerali. Mi rendo conto che è il nostro tempo. Siamo davanti all'inevitabile, alla chiusura di un mondo - il Novecento - che sento profondamente mio, anche se sono nato nella seconda metà del secolo».
Anche nel suo ultimo lavoro lei se la prende con un certo sviluppo, fatto solo di strade e di centri commerciali.
«E' vero. Ma oggi, qui, non voglio fare nessuna retorica sui luoghi di lavoro: non è che vivesse bene, chi lavorava qui dentro o in molti altre fabbriche. Ma qui si respira ancora un'idea del lavoro solida, che fa pensare a tante persone che sono state insieme, che evoca un movimento, all'interno delle vallate, di lavoratori che per la prima volta si sono messi in relazione fra loro. Storie di uomini e, soprattutto, storie di donne».
Le hanno spiegato come risorgerà la Manifattura?
«No. E non vorrei gonfiare le mie sensazioni a dismisura, anche perché non ho nemmeno visitato tutto. Ma mi sono venuti in mente un pezzo del ghetto di Varsavia, un pezzo di Venezia (ho provato sensazioni analoghe all'Arsenale o alla Giudecca), un pezzo di Cinecittà o del villaggio Crespi, sotto Cassano d'Adda».
«So che a Rovereto questo luogo è molto sentito e questo può fare la differenza. Avverto la volontà di conservare una funzione: se non quella produttiva, quella di civitas, che permette di stare insieme. La Manifattura dà sensazioni forti, non si tratta solo di suggestioni estetiche».
Il paesaggio di parole lascia spazio al silenzio. Paolini riprende il suo viaggio sul palcocsenico dell'Italia. Ci lascia un suo sguardo su questo mondo lontano e di nuovo vicino. Non archeologia industriale. Elogio del ricordo. Da coltivare.